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Replying to Mater Morbi – Roberto Recchioni e Massimo Carnevale - Recensione di Francesca Sperelli

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  1. Posted 30/12/2014, 20:22

    MATER_MORBI_variant



    “Cos’è che ci uccide? Il tempo passato o la strada percorsa?”

    Premessa: non leggo Dylan Dog.
    Se mi fosse passato accanto Recchioni, non avrei avuto le palpitazioni, non mi sarei sbracciata a salutarlo, né lo avrei tempestato di domande sul prossimo numero.
    Oggi posso dire di aver incontrato il secondo fumettista italiano, dopo Silver, a non starmi sui coglioni. Sì, non faccio sviolinate, io.

    Accarezzo la carta, vi struscio le dita per tastarne la finezza. Potrà sembrare un particolare di poco conto, ma per il feticista della carta lo spessore e la grana sono imprescindibili.
    In MM la carta è pregiata, non abbastanza spessa, però, come quella usata dalla Fandango per la stampa delle opere di Gipi.
    Mi permette comunque di osservare a occhio nudo le sfumature di colore senza ricorrere alla lente di ingrandimento ed è abbastanza ruvida perché le mie dita comincino a farvi le fusa.

    Il disegno. Erotismo, surrealismo, psicosi di bianco e nero.
    Gli occhi, cazzo, gli occhi sono tutto in questa storia.
    Gli infermieri richiamano i mostri di Silent Hill: ripresi dall’occhio di pesce, poi, conducono all’esaltazione.
    L’iperuranio lontanissimo, perfetto e immoto, il sottosuolo marcio di lacrime. Le forme costruite non dal chiaroscuro ma dal buio nelle ombre.
    Non vedevo un ossimoro disegnato in modo così brutale dai tempi di William Blake.
    E ho detto tutto.

    Arriviamo alla storia. Prima lettura: porca puttana. Seconda lettura: porca troia.
    Però… forse è il caso di elaborare meglio questi due elementari concetti…
    Per fortuna, l’apparente Eros e Thanatos della copertina viene clamorosamente smentito. In questa storia non c’è spazio per l’amore, se senti la frusta della “Madre di tutte le malattie” cantare.
    Dylan prigioniero di una nuova ossessione, di un incubo che non ha dimensioni umanamente misurabili. Dell’atomo opaco del male. Non è ammessa misericordia alcuna neanche nel corso di un’estemporanea anestesia. La tensione deve essere sempre altissima, il lettore deve mordersi le dita in attesa dell’epilogo.

    Leggendo per la terza volta MM, ho fatto ricorso alla sceneggiatura completa e originale. E anche qui l’ennesimo colpo di scena.
    Non è la prima volta che mi imbatto in una sceneggiatura, però, non ho potuto fare a meno di domandarmi se Recchioni stesse dirigendo un film o un fumetto (il termine “piano americano” non si usa di più nella fotografia o appunto nella cinematografia?). Inoltre, c’è un’accurata, meticolosa precisione sui particolari e come questi debbano disporsi nello spazio (“Fumetti o morte!”, “Il fumetto…il fumetto è tutto!” avrei letto poi..). Che apprezzo.
    Solo un lettore estremamente pignolo quanto l’autore si sarebbe reso conto che è semplicemente geniale l’idea che la Mater non maneggi una banale frusta ma una sonda per endoscopia.
    Proseguendo nella lettura, traspare l’omaggio (però un pò scontato) al film “Arancia Meccanica” e al cruento “Denti” di Salvatores (omaggio molto meno ovvio). Quando, dove, perché è cominciato l’incubo di un uomo? Perché MM ha scelto proprio Dylan? Perché Dylan è straordinario, unico ai suoi begli occhi da gatta?
    Questa storia non è soltanto un inno distorto al male di vivere dell’era contemporanea, ma una vera e propria fotografia della sindrome “del lasciare vivere”, del limbo sempiterno che accompagna gli uomini affetti da “fiori del male” e dell’industria medico-farmaceutica che si nutre voracemente della sofferenza di quelle che sono considerate cavie. Tranne dei “rarissimi”, lasciati appesi all’albero della consunzione.
    Non c’è spazio per la dolcezza della tregua prima dell’ennesima frustata, nemmeno quando la Mater chiama Dylan al giardino della consunzione…Adesso il lettore non deve mordersi le dita, deve proprio mangiarsi la mano. Anzi, entrambe.
    Dire che quest’opera è soltanto un’aperta denuncia sociale, tuttavia, è riduttivo e miope.

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    Lo sguardo va dato al singolo, all’uomo che ha patito atroci sofferenze, è risorto ma combatte ancora un mostro che ama e da cui è amato.
    E’ proprio un amore-odio quello che sta uccidendo Dylan, verso se stesso e la propria condizione di infermo, comprensibile soltanto da chi si trova nella fossa più profonda e lercia dell’inferno e sa di non poterne uscire perché non vuole uscirne. Non conta quanto sia viscerale l’amore di chi sta intorno. I chiodi dalla croce devi toglierteli da solo. I chiodi sono le tue dita.
    L’esito paradossale del messaggio, tuttavia, non è combattere fino alla morte contro un nemico che cresce dentro di te, ma l’esatto contrario. La malattia viene introiettata nel paziente, il dolore come identità più vera e nascosta dell’Io è la chiave di lettura di quest’opera, tutte le altre sono ultronee a dibattiti che non hanno a che vedere con l’essenza del racconto.
    Non posso non ricollegare il pensiero dell’Autore a quello di Dostovjesky, secondo il quale la Sofferenza è il mezzo di distruzione di ogni maschera, un percorso di redenzione dove però i traguardi diventano partenze.
    Soffermo adesso la mia attenzione su un personaggio che, erroneamente, potrebbe essere considerato secondario, Vincent, la cui storia la storia affonda le radici in quella personale dell’autore.
    A parlare è il bambino “speciale” che Recchioni è stato, che ha dovuto affrontare un mostro con il disincanto di un’adulta incoscienza. Alcuni hanno ritenuto che l’Autore non abbia dato sufficientemente dialogo e spazio al ragazzino. Io credo, invece, che Vincent sia l’alter-ego di Dylan Dog, colui che conosce già l’epilogo della vicenda e sa che alla fine l’indagatore dell’incubo gli darà ragione, cioè che non può vincere contro MM.
    La sua morte, d’altronde, potrebbe essere interpretata come una fusione tra un bambino che non ha mai avuto un’infanzia ma ha comunque trovato la pace interiore e quella di un uomo squarciato nel più profondo dell’anima, che si trova a dover indagare in un luogo inaspettato, dentro se stesso.
    Da tale fusione nascerà un Dylan Dog altro rispetto al vecchio indagatore dell’incubo. Un uomo che ha irrimediabilmente perso una parte di sé, eppure, molto in profondità, ancora in possesso di un barlume terminale di speranza.
    Ed ecco perché MM non ha un vero e proprio finale: come può realmente finire una storia dove tu farai eternamente i conti con te stesso, essendo il male e la sua nemesi?

    Quest’opera è perfetta? Certamente no, come l’Autore stesso ha ammesso.
    Come detto sopra, il Dylan Dog combattivo deve lasciarsi andare, rinunciare alla lotta e arrendersi. Alla fine un uomo più maturo scrive sul proprio diario, un uomo che ha preso coscienza del dramma dell’esistenza umana, della sua fragilità da falena e che ha fatto (un pò più di) luce sulle proprie ombre.
    Però, il passaggio dal primo al secondo Dylan non è abbastanza approfondito. Dylan si arrende troppo presto, pensavo di trovare maggiore enfasi, combattimento, attacchi e contraddizioni.
    La ragione credo stia nel fatto che il linguaggio del fumetto e quello del romanzo introspettivo sono diversi: nell’uno la sintesi è tutto, nell’altro il diavolo sta nei dettagli. Non puoi raggiungere il finale tramite la fede, l’autore deve prenderti per mano e accompagnarti fino al baratro dove sboccia un fiore.

    Concludendo: soldi bene spesi, rapporto qualità-prezzo ottimale, ottimo disegno e sceneggiatura che brucia come una sigaretta spenta sulla pelle. Consigliato.

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